Il calendario di maggio 2022
La Vita tra determinismo e finalismo
Abbiamo dedicato il calendario del mese scorso a un problema centrale della conoscenza, ovvero come distinguere un essere vivente da uno inanimato. Ovviamente il nostro è stato un approccio minimalista e un po’ didascalico, lontano da qualunque pretesa di dire qualcosa di nuovo sulla questione. Ciò non ostante abbiamo potuto arrivare a una sintesi estrema: l’unico modo per rispondere alla domanda “Che cos’è la vita?” è ammettere che il “soffio vitale” è una forza di opposizione al disordine crescente, è la sconfitta dell’entropia.
Vorremmo ora completare la nostra piccola analisi tentando di rispondere alla domanda complementare della precedente: “Se la vita è ‘qualcosa di diverso’, se siamo in grado di distinguere tra materia inanimata e materia vivente, da dove trae la sua origine quest’ultima?”. Non facciamoci illusioni: nonostante la quantità di ricercatori attivi nel tentare di dare una risposta, questa domanda una risposta ancora non ce l’ha, e quindi tutto ciò che possiamo fare è una rapida passeggiata tra le diverse ipotesi sul tappeto.
Tralasciando le varie mitologie che di volta involta ci hanno proposto scontri tra titani, serpenti piumati, uova cosmiche e via dicendo, ci sembra che il primo tentativo razionale di spiegare l’origine della vita sia quello della generazione spontanea, le cui radici risalgono all’antichità mediterranea, ma che sarà accettata dalla comunità scientifica fino alla metà del ‘700 e poi demolita da Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani e definitivamente nel 1864 da un celebre esperimento di Louis Pasteur. L’idea era quella che alcuni dei più semplici esseri viventi nascessero spontaneamente dal fango o dalla putrefazione di animali e piante morti. Non a caso il nome attribuito a questa teoria è abiogenesi, ovvero origine da sostanze non viventi, contrapposto a biogenesi, ovvero il principio per cui la vita deriva solo da esseri viventi.
Paradossalmente questa teoria prelude a quanto sta ancora accadendo ai nostri giorni: in effetti tutti i tentativi contemporanei di capire l’origine della vita sono caratterizzati dalla ricerca di come certe sostanze inanimate possono generare - in determinate condizioni, attraverso processi chimici e fisici - qualcosa che abbia le caratteristiche dell’essere vivente, e cioè la capacità di organizzarsi e riprodursi. A partire da Darwin, che nel 1871 ipotizzava “un piccolo stagno caldo” come ambiente di sviluppo spontaneo della vita, una quantità di ricercatori prese a cuore la problematica, fondando una nuova branca della conoscenza, la cosiddetta chimica prebiotica, ovvero lo studio dei processi chimici e fisici che, pur non creando esseri viventi, pure ne avrebbero reso possibile l’esistenza.
Una delle nozioni che si diffuse rapidamente tra il grande pubblico fu certamente quella del brodo primordiale, figlio del “piccolo stagno caldo” di Darwin. Del concetto siamo debitori al russo Aleksandr Oparin che nel 1924 aveva dimostrato che semplici molecole organiche potevano organizzarsi spontaneamente in microsistemi sferici, detti coarcevati, tenuti insieme da forze idrofobiche, ma bisogna arrivare al 1953 quando i chimici Stanley Miller e Harold Urey (premio Nobel), applicando al brodo primordiale calore e campi elettrici (come simulazione dei fulmini certamente abbondanti sulla Terra dell’antichità), scoprirono che dopo una settimana una buona parte dell’idrogeno aveva dato luogo a composti organici, tra cui proprio alcuni dei 22 amminoacidi la cui importanza era già allora nota come costituenti degli esseri viventi*.
Il successo dell’esperimento - in realtà molto semplice - così come di esperimenti analoghi ripetuti più volte anche in tempi recenti costituiva un passo avanti nella ricerca dell’origine della vita, ma un passo assai limitato perché nessuna delle nuove molecole emergenti era in grado di replicarsi, cioè possedeva la capacità fondamentale dell’elemento vitale di mantenersi e riprodursi.
Mentre questi ricercatori si interessavano della “ricostruzione” dello “spirito vitale”, un maggior numero di scienziati erano più coinvolti nel tentativo di capire il processo che determinava la crescita e la riproduzione dell’organismo. L’inizio di questo filone di ricerca può essere fatto risalire al 1868, allorché il biologo svizzero Friedrich Miescher scoprì che nei nuclei di tutte le cellule esistevano sempre due sostanze, che chiamò acidi nucleici, in seguito ribattezzati acido ribonucleico (RNA) e acido desossiribonucleico (DNA). L’RNA si presentava come un filamento, anche molto corto, spesso ripiegato, attaccati al quale vi erano molecole complesse costituite da zuccheri e amminoacidi. La comprensione della forma del DNA, in cui il filamento è doppio, è molto posteriore e risale al 1953, quando la celeberrima coppia Watson e Crick ne individuò la struttura a doppia elica.
La presenza dell’RNA in tutte le cellule (si scoprì che anche le cellule procariote, prive di nucleo, contengono RNA) e i suoi legami col DNA e con le altre grandi molecole presenti nelle cellule, le proteine, portarono alla confluenza dei due filoni di ricerca, tanto più che l’RNA si è dimostrato in grado di catalizzare semplici reazioni chimiche portando alla creazione di nuove molecole. Insomma, l’RNA avrebbe potuto essere proprio quel “cristallo aperiodico” che Erwin Schrödinger - che vi era arrivato con pure considerazioni di termodinamica - ipotizzava come elemento di conservazione e trasmissione dell’informazione**.
L’idea di attribuire estrema importanza all’RNA come motore della vita si può far risalire al 1963, al biologo molecolare Alexander Rich, ma è solo nel 1986 che il premio Nobel Walter Gilbert coniò il nome con cui è stata battezzata: “Ipotesi del mondo a RNA”. La teoria parte dal presupposto che gli organismi viventi più antichi fossero privi del DNA, una molecola più complessa e più stabile di quella dell’RNA, di cui si presenta come un’evoluzione tardiva. L’ipotesi, è sostenuta anche da evidenze sperimentali: molecole di RNA prodotte in laboratorio sono in grado di duplicarsi anche se non identicamente; tuttavia una molecola con 189 basi, quella che ha mostrato la massima fedeltà di replicazione, ha riprodotto quasi il 99% di sé stessa.
In questo momento storico l’ipotesi del mondo a RNA, anche se non totalmente condivisa dai ricercatori, appare come la strada più proficua per indagare l’origine della materia vivente. Ciò non significa che non esista un’altra molteplicità di teorie, che vanno da quella cosiddetta del mondo a pre-RNA (secondo cui esisterebbe un progenitore dell’RNA, più semplice, capace di duplicazione) a quella del mondo a ferro-zolfo (per la quale la vita sarebbe nata all’interno di vulcani sottomarini) alla teoria dell’argilla e a molte altre, ciascuna con accesi sostenitori e feroci detrattori. Fin qui lo stato dell’arte.
A questo punto si rende indispensabile una considerazione. Tutte le ipotesi finora sommariamente illustrate hanno in comune gli assiomi che la vita sia nata (a) spontaneamente e (b) sul nostro pianeta e che si sia evoluta dalle forme più primitive a quelle attuali secondo un processo darwiniano. Ma entrambi questi assiomi, che collocano il fenomeno dell’origine della vita entro un rigoroso determinismo, una sequenza di rapporti causa-effetto, possono essere negati (e lo sono da molti scienziati). Esiste, ad esempio, una teoria abbastanza condivisa secondo la quale il pianeta a noi più vicino, Marte, avrebbe costituito un ambiente più adatto a generare la vita, che sarebbe poi stata esportata sulla Terra quando la crosta marziana subì urti di comete e asteroidi. Questa ipotesi può essere generalizzata in quella della panspermia, per la quale le forme vitali sono giunte sul nostro pianeta da altre zone dell’universo visibile, poiché anche nella polvere interstellare si trovano molecole organiche complesse. Un altro tipo di negazione dei due assiomi precedenti consiste nel ritenere che i “semi” della vita siano presenti nell’universo fin dalla sua origine, e che si siano progressivamente dispersi negli ambienti (la Terra è solo uno di essi) dove esistevano condizioni favorevoli al loro sviluppo (è una forma del cosiddetto principio antropico).
Quest’ultima considerazione sfocia necessariamente in un atteggiamento metafisico, ovvero nella possibile esistenza di un progetto originale esplicitamente rivolto a propagare la vita nell’universo. Si direbbe un punto di vista eminentemente religioso, che fa appello a un meccanismo teleologico (in cui l’effetto, la vita, precede la causa, il suo formarsi). Ma tra i suoi sostenitori si trovano anche scienziati accreditati come il fisico dell’800 Lord Kelvin (“La materia morta non può animarsi senza l'intervento di materia viva preesistente”***), come il premo Nobel Svante Arrhenius, come il genetista statunitense Francis Collins, a capo del gruppo che ha decifrato il genoma umano. Sono proprio questi scienziati, che spesso hanno dedicato tutta la loro esistenza al problema della vita, a essere rimasti tanto sconvolti dalla sua complessità da non poterla più ritenere come un semplice fatto evolutivo. Come scrive il filosofo britannico Anthony Flew, passato dal più convinto ateismo alla fede: “La ragione mi parla della quasi impossibilità di concepire l'universo e l'uomo come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità”. Questi, e molti altri personaggi della cultura scientifica, ci indicano che la Scienza (anche quella con la S maiuscola) non esaurisce il processo della conoscenza. Forse è la ragione ultima per cui, almeno finora, non è stato possibile ricreare la Vita.
Infine, ma solo per complicare ulteriormente la questione, diremo che le ricerche attuali sono caratterizzate da un evidente eccesso di antropomorfismo, ovvero la vita che si intende creare in laboratorio non è diversa da ciò che vediamo intorno a noi. Stiamo cercando una vita non dissimile da quella della nostra esperienza, basata su carbonio, acqua, ossigeno, DNA, … ma nulla ci impedisce di pensare che esistano altri meccanismi biochimici (qualcuno ha ipotizzato quello del silicio, del boro, dello zolfo e altri) che conducano ad esseri viventi. Forse siamo al confine con la fantascienza, ma “simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe i suoi dei” (Senofane, 500 a.C.), e qui sta la miseria del nostro pensare.
____________________________ * tralasciamo qui il fatto che gli amminoacidi prodotti dall’esperimento sono ugualmente distribuiti in levogiri e destrogiri, mentre gli amminoacidi interessati dai fenomeni vitali sono sempre e solo levogiri. Nessuno sa il perché, anche se vi sono vaghe ipotesi ** cfr. calendario di Cometa di aprile 2022 *** la citazione è quasi obbligatoria, ma è opportuno ricordare che William Thompson, I° Lord Kelvin, è diventato celebre non solo per l’attività di ricercatore e ingegnere ma anche per la disinvoltura con cui dava giudizi estremi che si sono rivelati sbagliati. Nel 1900 dichiarò “"Adesso non c'è più niente di nuovo da scoprire nella fisica”; pochi anni dopo Einstein pubblicò il primo articolo sulla relatività e dopo un po’ vide la luce la meccanica quantistica |