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venerdì 30 settembre 2022

Il calendario di ottobre 2022

Il fascino delle rovine

Finora abbiamo dedicato la massima parte dei nostri calendari mensili ad animali e piante, talvolta sottolineando il contributo che questi nostri fratelli hanno dato allo sviluppo della cultura umana, diventando protagonisti di opere d’arte. Tuttavia Cometa non è un’associazione puramente animalista ma, fin dalla sua nascita, ambientalista, ovvero rivolta alla “salvaguardia del patrimonio ambientale nella sua totalità: fauna, flora, idrogeologia, architettura, arte, etnologia, paesaggio” come recita il nostro statuto. Quindi forse è giunta l’ora di dedicare alcune delle nostre chiacchiere anche a qualche altro elemento di ciò che costituisce la civiltà umana, almeno nel senso positivo che la nostra associazione dà a queste parole.

Cominceremo dalle rovine architettoniche. Può sembrare un paradosso, ma non lo è se pensiamo che un gruppo che si batte per la conservazione della biosfera non può ignorare la conservazione, altrettanto importante per il nostro “essere umani”, di quelle testimonianze che homo sapiens ha seminato qua e là nel corso della sua evoluzione, e che sono diventate parte integrante delle nostre radici culturali. Tanto più mentre viviamo un momento storico in cui le élites occidentali stanno lavorando per cancellarle dalla nostra memoria*.

In ogni momento della sua vicenda il genere umano si è posto domande sul futuro (dove stiamo andando) quanto sul passato (chi siamo stati). Una risposta concreta ad entrambe le domande, il futuro dell’osservatore filtrato attraverso il passato, sono proprio le rovine**, i ruderi, le macerie, tutto quanto ci lascia intravedere simultaneamente la grandezza e la debolezza dell’essere umano e di ciò che costruisce. Quindi una lezione poetica di umiltà***.

Che cosa rende le rovine tanto affascinanti tanto agli occhi degli artisti che da sempre hanno voluto ritrarle quanto agli occhi di (quasi) tutti noi? a questa domanda si danno di solito risposte retoriche piuttosto banali: riflessioni sulla caducità delle opere dell’uomo (e di conseguenza dell’essere umano), sul potere del passare del tempo, sull’inutilità delle cose materiali e così via. Tutte sagge verità, ma ciò che veramente attrae delle rovine non tanto è il loro esserci, il permanere, il sopravvivere della materia, quanto la materia che con c’è, i vuoti che erano archi, muri, colonne. Ovvero la potenzialità già realizzata ma che ora può essere solo fantasticata, "l’intersezione tra il visibile e l’invisibile", come scrive l’archeologo Salvatore Settis. Con un diverso linguaggio, Freud - nel suo breve saggio Caducità, 1915 - accenna al fatto che le rovine sono un punto d’incontro tra libido, la forza vitale, e pulsione di morte.

E’ del tutto ovvio che oggetto così ricco di significati non ha potuto sfuggire alla produzione pittorica, un vero e proprio culto che dà luogo a una sorta di metalinguaggio in cui i resti di una chiesa, di un palazzo, una semplice colonna abbattuta, purché appartengano al passato, diventano soggetti di duplice memoria, le macerie materiali in sé e il quadro che le riproduce, la storia del soggetto diventa contemporaneità agli occhi del pittore e - ai nostri occhi - memoria della memoria. Per la prima volta, nel 1336, un pittore, Maso di Banco, inserisce in un suo quadro (di argomento religioso, come d’obbligo a quel tempo) i frammenti di una colonna e di un arco****, ma si tratta di un’anticipazione isolata, perché è durante l’epoca barocca che la rappresentazione pittorica delle rovine diventa una sorta di specializzazione nell’ambito della più vasta pittura di paesaggio.

A partire dal ‘600 pittori italiani (Francesco Guardi, Marco Ricci, Pietro Paltronieri, Giovanni Paolo Pannini,  l’incisore Giovanni Battista Piranesi, Canaletto e molti altri) e stranieri (Thomas Gainsborough, Camille Corot, Caspar David Friedrich, Johann Heinrich Füssli, …) hanno letteralmente divorato rovine di tutti i tipi, e quando non ne avevano a portata di mano creavano i cosiddetti capricci, ovvero vedute di fantasia in cui le rovine spesso occupano un posto d’onore. Si tratta di un movimento internazionale talmente vasto e specializzato che ha avuto l’onore di entrare nella storia della pittura con un nome proprio: il Rovinismo. Il Gran Tour, ovvero il viaggio culturale praticamente obbligatorio cui dovevano sottoporsi i pargoli delle famiglie bene del nord Europa, che dal XVIII secolo venivano inviati al sud (soprattutto in Italia, a Roma e in Sicilia, ma anche in Grecia) a conoscere la classicità, incrementò ulteriormente il culto iconografico delle rovine, che trovavano nei giovani e ricchi visitatori ottimi acquirenti.

La tensione verso la rappresentazione delle rovine si estende fino ai nostri giorni, ma - influenzata da correnti moderne (simbolismo, realismo magico, surrealismo, pittura metafisica e altre) - assume forme diverse, abbandona la concretezza che l’aveva caratterizzata per trecento anni e sfocia in forme più differenziate e di fatto più ricche. E’ infine interessante osservare che proprio un contemporaneo, l’architetto del Reich Albert Speer ha fondato la teoria del Valore delle rovine (Ruinenwerttheorie), secondo la quale ogni edificio deve essere progettato in modo (e con materiali) tali da renderne i resti, una volta caduto in rovina, autosufficienti ed esteticamente apprezzabili.

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* non è la prima volta che succede: da sempre a chi vuole conservare la memoria del passato si oppone chi vuole cancellarla. La Biblioteca di Alessandria, istituita nel 300 a.C. da Alessandro Magno con l’intenzione di conservare tutto lo scibile del tempo, venne distrutta quattro volte nei quasi mille anni della sua vita. Il panorama della iconoclastia è quanto mai vario: la damnatio memoriae è un vizio dell’umanità che si estende dall’antichità egizia, quando furono distrutte tutte le immagini del “faraone eretico” Akhenaton, transita nella cultura romana (che volle eliminare dalla storia Caligola, Eliogabalo e altri imperatori scomodi) e in quella cristiana (cattolica e protestante) e si estende immutata ai nostri giorni: roghi dei libri della Germania nazista, abbattimento degli edifici religiosi dopo la rivoluzione culturale cinese, delle statue di Lenin e Stalin dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani nel 2001, delle statue di Cristoforo Colombo e altri presunti razzisti negli USA dei nostri giorni e così via fino alla ventata russofoba che attraversa oggigiorno alcune nazioni dell’UE
** il termine italiano rovina deriva dal verbo latino ruĕre, che significa precipitare, e quindi è tipico degli edifici che, a causa dello scorrere del tempo o di fenomeni naturali (terremoti) o vicende umane (guerre) sono crollati
*** proprio perché si tratta di un insegnamento, a parere di molti antropologi e architetti, non ha senso ricostruire le rovine. Recentemente Vittorio Sgarbi (e prima di lui Valerio Massimo Manfredi) hanno proposto la ricostruzione del Tempio G di Selinunte, crollato nel Medioevo in seguito a un terremoto e di cui ora resta solo un ammasso di pietre. Forti voci accademiche hanno criticato duramente il progetto: le rovine del tempio, nella loro tragica bellezza, sono entrate nella culturacome tali (si veda il calendario) e la ricostruzione costituirebbe un atto vandalico, ovvero la distruzione di un aspetto culturale mascherata dall’ipocrisia di salvarlo, che condurrebbe inevitabilmente a un falso storico. Diverso è il caso della ricostruzione di un edificio storico danneggiato da un evento recente, come la Basilica Superiore di Assisi restaurata dopo il sisma del 1997, la cui messa a nuovo ha avuto l’obiettivo di restituire alla popolazione un edificio tuttora fruito
**** in realtà esistono rare rappresentazioni di rovine (sempre solo sullo sfondo) anche in opere pittoriche e manufatti di epoca romana

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