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mercoledì 29 maggio 2024

Il calendario di giugno 2024

Porcheide

Se si sfoglia Internet alla ricerca di qualche notizia sul maiale, si trova ben poco che lo riguarda in quanto essere vivente e moltissimo che lo riguarda da morto, ucciso, trasformato in cibo.

Certo, esistono siti che ci parlano di un animale intelligente (più intelligente del cane), socievole, affettuoso, particolarmente attento all’igiene, dotato di molte virtù, ma la massima parte di quanto è pubblicato è sponsorizzata da produttori di salumi; spesso sono siti professionali, ben fatti, che non mancano di acculturare l’internauta con dotte esposizioni della storia del maiale. Una sproporzione che si rileva anche dal fatto che esistono molteplici musei dei salumi*, ovvero expo di maiali morti, ma un solo museo del maiale vivo (peraltro chiuso da anni: è a Carpineto Sinello, in quel di Chieti)**. Per trovarne un altro dobbiamo andare fino a Stoccarda, dove il mattatoio dismesso si vanta di ospitare, in 27 sale tematiche, il più grande museo del maiale al mondo (c’è annesso anche un ristorante, cosa un po’ sospetta). Ma non c’è bisogno di andare in Germania per incontrare un numero infinito di sagre, feste popolari, manifestazioni dedicate al porco, dove il porco lo si mangia.

E’ una prova tangibile di quella che la scrittrice Maria Rosa Panté chiama, in suo testo ricco di citazioni La catastrofe del maiale. Un dramma in crescita da migliaia di anni.

Il maiale non è mai stato veramente domesticato, semmai allevato***. Torniamo molto indietro nel tempo: ecco che un cinghiale pigro o furbo (o forse una femmina che teme per i suoi piccoli) comincia a seguire spontaneamente un nucleo umano vagante, all’interno del quale può trovare cibo gratuito e protezione dai predatori. Passano 250.000 anni, il nucleo umano scopre la coltivazione (che è più comoda che non l’andare in giro sperando di trovare qualcosa da mettere sotto i denti) e diventa stanziale; nel frattempo i cinghiali che lo seguivano - a causa della rapidità con cui si riproducono, dell’abbondanza della prole e degli incroci tra consanguinei, nonché della eventuale castrazione dei giovani maschi - hanno perso le zanne e sono diventati meno aggressivi: erano cinghiali e ora sono maiali (e bei maiali grassi, perché il cibo è copioso e si ottiene senza fatica). Una dinamica che, secondo gli etologi, si è ripetuta in po’ ovunque nel mondo antico, in tempi leggermente diversi, dando luogo a razze di maiali diversificate quanto lo erano quelle originali dei cinghiali: dal sud est asiatico alla Mesopotamia, alla Palestina, al continente europeo.

Alla fine le due specie - uomo e porco - capiscono che vivere in prossimità può essere utile per entrambe: il vantaggio per il maiale è evidente, cibo e sicurezza, ma qual è il vantaggio per l’uomo? che cosa ha da offrire il maiale? il cane fa la guardia, il gatto tiene lontani i topi, buoi, cavalli e asini aiutano nei campi e nel trasporto, le galline donano le uova; il maiale non sa fare nulla, quindi può dare all’uomo solo sé stesso, il suo corpo, del quale - lo si sa fino dall’antichità - non si butta niente. Quindi è condannato a diventare cibo, pelle per abbigliamento, grasso per candele, setole per spazzole, sangue per dolci. Per il momento la sua è ancora solo una tragedia terminale perché, per moltissimi anni del passato al maiale è stata garantita una vita piacevole e una morte dignitosa.

Fino allo sviluppo dei grandi nuclei abitati l’allevamento del maiale avviene riservandogli ampie aree boscate dove è libero di razzolare pacificamente, di nutrirsi guidato da odorato e udito raffinatissimi. Nasce la figura del porcaro di professione (che l’Odissea renderà mitica): il maiale non è realmente domesticabile, se fugge dal recinto riprende rapidamente i caratteri del cinghiale, quindi va sorvegliato. A partire dal XII secolo (almeno in Europa) il maiale entra in città: il disboscamento a favore delle coltivazioni (che il maiale, grufolando, danneggia) è sempre più intenso e le autorità vietano il pascolo extra moenia. Da allora il maiale viene tenuto nei cortili o libero per le strade, dove svolge un apprezzato lavoro di spazzino, durante la notte viene ospitato nell’abitazione del proprietario. E’ una promiscuità che si manterrà nel tempo: leggiamo nei Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del Regno (Direzione generale della statistica, Roma, 1886): “Nell'Italia meridionale si è visto che spesso mancano le stalle propriamente dette; ma, nello stesso ambiente nel quale vive la famiglia, molte volte si tengono riparati di notte i maiali, l'asino, o altro animale domestico”. Probabilmente è un comportamento esteso anche al sud est asiatico, se è vero che l’ideogramma cinese per casa è composto dal segno di un tetto posto sopra il segno di un maiale. Insomma, dal Medioevo (e in alcune aree fino ai nostri giorni) il maiale diventa un componente a pieno titolo del nucleo famigliare, un animale da affezione finché è piccolo, una insostituibile risorsa alimentare da adulto, ma sempre e comunque un patrimonio da vegliare con cura. La ricchezza, nelle campagne, si misura dal numero di animali posseduti, molti maiali vuol dire poter dare da mangiare a una famiglia numerosa.

Ovviamente la macellazione permane, il maiale è allevato proprio per questo, ma conserva la sua aura di sacralità e il suo significato di fattore di consolidazione sociale. All’uccisione e alle operazioni successive, che durano qualche giorno finché tutte le parti dell’animale non sono approntate per la conservazione, partecipa tutta la comunità: Bernardo Bertolucci, che ce ne ha fornito una documentazione realistica nel film Novecento, ricorda di avervi assistito da ragazzo. Tuttavia per alcune operazioni è d’obbligo il ricorso a figure professionali specializzate: se la castrazione dei giovani maschi può essere effettuata direttamente dal proprietario, la sterilizzazione delle scrofe richiede abilità chirurgiche in possesso di pochi: “Questo rito è dunque eseguito dai sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio”, scrive Carlo Levi, e siamo negli anni ’30 del secolo scorso. C’erano anche i salatori, specialisti della conservazione della carne e perfino, in Francia, i langueyeur o ispezionatori della lingua, che esaminavano l’animale per verificare l’assenza della tenia.

Un rito sanguinoso, quindi, ma che comportava piena coscienza delle sofferenze che l’animale doveva subire per consentire all’uomo di sfamarsi. E quindi rispetto e gratitudine per l’animale sacrificato, che non a caso gode dall’antichità di una mitologia privilegiata comune a culture distanti tra loro (in Egitto i cicli di fecondità della scrofa scandivano le stagioni, in India il cinghiale Varaha è una delle dieci incarnazioni terrene di Vishnu, tra i Celti era uno dei simboli della casta druidica, Freyja, dea germanica della guerra, portava il soprannome di Sýr, scrofa, in Grecia era sacro alla dea della fecondità, Maia, da cui deriva il nome).

La tragedia individuale del porco diventa catastrofe collettiva col crescere della concentrazione della domanda nei sempre più affollati centri urbani: nascono i macelli pubblici, gironi infernali spesso isolati dal centro abitato, dove la macellazione diventa una “catena di smontaggio” (gli addetti la chiamano proprio così) e l’uccisione del maiale perde completamente quel significato di triste gratitudine che la permeava nella civiltà contadina e presso le corporazioni professionali attive nei centri minori. Per il cittadino contemporaneo il maiale (così come tutti gli altri animali che vengono uccisi per nutrirlo) deve essere solo la confezione pulita e patinata del supermercato: è proprio l’ignoranza del processo di produzione, quella che potremmo chiamare la distanza dal sangue che consente alla massima parte di noi di continuare a nutrirci di cadaveri. La stessa distanza che separa l’utente del telefonino dal bambino che scava a mani nude nelle miniere di litio e di coltan.

“[Ricordo] ovviamente il giorno del ‘sacrificio’ […] La festa che ne seguiva, con i vicini di casa e parenti venuti in aiuto”. Non è una cronaca ottocentesca: chi scrive si chiama Adriano Favole, ha una cinquantina d’anni, è professore all’università di Torino e antropologo ambientalista. Da ragazzo ha partecipato a un rito comune a gran parte dell’Europa contadina e forse per questo motivo ha dedicato parte della sua attività professionale allo studio del rapporto tra uomo e maiale. Il suo saggio Per un’antropologia del maiale ci offre un punto di vista diverso, meno etico e più scientifico, sul nostro amico suino. L’antropologo si pone una domanda: perché alcune popolazioni hanno scommesso sul maiale, accettando di conviverci, di allevarlo, di mettere così a rischio le coltivazioni e altre lo hanno demonizzato? la risposta che si intravvede è la vaghezza del confine tra “maialità” e “umanità”: maiali e uomini sono terribilmente simili, tanto sotto l’aspetto genetico quanto fisiologico (quando vigeva la proibizione di usare cadaveri umani le lezioni di anatomia si svolgevano sui maiali) quanto comportamentale (sanno adattarsi, colonizzano i territori ove abitano, hanno lo stesso processo digestivo).

Questa rassomiglianza ha una conseguenza fondamentale: il maiale è in qualche modo un essere umano un po’ diverso (forse più donna che uomo, se si considera che la scrofa - per la sua fertilità - era associata alla Grande Madre e che molti culti dove il maiale ha una posizione privilegiata sono rivolti a divinità femminili). Il cucciolo del maiale assomiglia molto al cucciolo dell’uomo, tra gli Orokaiva (Nuova Guinea) il rito di passaggio all’età adulta diventa la trasformazione dal bambino-maiale al bambino-uccello. Se il maiale è un essere umano allora può essere alleato ma anche diventare un concorrente: l’antropologo Roy Rappaport descrive il rito del kaiko: quando “un eccessivo numero di maiali risulta distruttivo per l’ambiente e per le relazioni sociali, ampliando le liti tra vicini per lo sconfinamento degli animali nei campi” allora si procede a un’uccisione di massa. Senza andare così lontano in un classico studio sulla piccola comunità francese di Minot l’antropologa Yvonne Verdier si diffonde sull’umanizzazione del maiale, oggetto di affetto famigliare, ma “all’avvicinarsi dell’uccisione si diffondono notizie e parole sul carattere mechant (“pericoloso”) dell’animale. In vista della morte, il maiale viene trasformato, narrativamente in primo luogo, da animale domestico ad animale sacrificabile e commestibile”. Analoghi comportamenti sociali sono stati rilevati anche in Italia; l’antropologo Francesco Marano riporta che i contadini di Brienza, in Lucania, che condividono l’abitazione col maiale, quando si avvicina il momento dell’abbattimento lo privano di cibo allo scopo di renderlo aggressivo, dopo di che viene ucciso solo col coltello e guardandolo direttamente negli occhi, in una simulazione simbolica di lotta tra soggetti di pari dignità. E’ facile trovare simili comportamenti descritti in opere di narrativa.

La testimonianza più evidente della percezione del maiale come uomo incompleto la si trova nella prescrizione del Vecchio Testamento “non mangerete quelli che hanno soltanto unghie divise o che soltanto ruminano” (Levitico, 11, 4) che ha a che fare col fatto che il maiale è simile all’uomo (ha le unghie divise ma non rumina***), quindi è “cattivo da mangiare perché cattivo da pensare in quanto espressione evidente della imperfezione del mondo creato” (Adriano Favole). Il giudizio negativo sui maiali è confermato nel Nuovo Testamento: Gesù libera un indemoniato e manda il demone a occupare il corpo di un maiale (Luca, 8, 26-39 e Marco, 5, 1-20). Se a questo aspetto narrativo aggiungiamo il fatto che il porco richiede grande quantità d’acqua, si nutre dei prodotti del bosco (e i boschi non abbondavano nelle terre dell’ebraismo) e minaccia le coltivazioni, si capisce perché gli ebrei preferirono cibarsi di capre e bovini. I maomettani conservarono il divieto di mangiare carne di maiale sostanzialmente perché avevano gli stessi problemi ambientali degli ebrei (poca acqua e pochi alberi) mentre i primi cristiani, a partire dai romani (che erano ghiotti di carne di maiale) convertiti, lo ignorarono, sostituendolo col tabù della carne di cavallo, troppo importante come animale da lavoro e da battaglia per poterlo uccidere (Marvin Harris, Good to Eat: Riddles of Food and Culture, 1986)

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* dal Museo della Salumeria di Modena al Museo del Salame di Felino al Museo del Prosciutto di Parma (sta a Langhirano, sconto 20% agli iscritti FAI!), Museo del Culatello, Mostra permanente della Mortadella, una quantità di sale dedicate alla norcineria in vari musei dell’alimentazione
** abbiamo notizia anche di un progetto di Museo Multimediale del Maiale, probabilmente abortito, e di un odontoiatra di Treviso che ha raccolto circa 30.000 manufatti (immagini, quadri, sculture, giocattoli, cartoline, etc.) dedicati al maiali
*** i suini sono mammiferi artiodattili (ovvero ungulati con un numero pari di dita) che si nutrono prevalentemente di tutto quello che trovano. Abitano la Terra da almeno una decina di milioni di anni. All’inizio erano piccoli e sono diventati sempre più gradi col passare del tempo, vivono in gruppi più o meno numerosi. I biologi li considerano poco specializzati: la massima parte degli artiodattili sono ruminanti (ovvero digeriscono il cibo attraverso il passaggio in più stomaci) mentre i suini hanno un solo stomaco (come l’uomo)

nell’immagine: L’ideogramma cinese per casa: il segno del tetto posto sopra il segno del maiale

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