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giovedì 31 ottobre 2024

Il calendario di novembre 2024

Catastrofi artistiche

L’idea che l’uomo ha della Natura è da sempre ambivalente.

 

Lo capiamo dalla Bibbia, dove una natura inizialmente benigna (“Dio vide che era cosa buona”, Genesi, 1, 25) diventa rapidamente, dopo il peccato originale, fonte di fatica e sofferenza per l’uomo (“Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”, Genesi, 3, 17-19). Seguono altri dispetti divini, come il diluvio universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra (perché "il loro peccato era molto grave”, Genesi, 3, 20) e le piaghe d’Egitto fino all’apoteosi della malvagità della natura, l’Apocalisse, che ci offre un campionario di sciagure naturali (terremoti, inondazioni, meteoriti,…) da rendere invidiosi i sostenitori del riscaldamento globale.

 

Un’ambiguità che si ripete in tutte le culture mediterranee, dalla Mesopotamia all’Egitto, e si ritrova in molte società lontane: nel Taoismo la natura partecipa alla dualità Yin-Yang, nel Buddismo riflette la ciclicità del samsara, nell’Induismo risente della contrapposizione tra la dea madre generosa Prithvi e il “danzatore cosmico” Shiva, che distrugge i mondi e li rigenera, per gli Aztechi era considerato opportuno effettuare (il più spesso possibile) sacrifici umani per evitare le bizzarie naturali. Da molti di questi popoli il disastro è visto come un’anomalia, una rottura dell’equilibrio, ma nel mondo greco e romano prevale, a partire dal primo secolo, sulla spinta dell’epicureismo e della diffusione del De Rerum Natura di Lucrezio, l’idea moderna di una natura indifferente alle sorti umane.

 

Solo nelle culture di derivazione biblica permane la convinzione che le catastrofi naturali, l’apparente malvagità della natura, sia una sorta di meritata punizione per le colpe dell’uomo. Conferma il premio Nobel Elias Canetti: “Sembra che gli uomini provino più sensi di colpa per i terremoti che per le guerre che essi stessi fomentano”. Il Cristianesimo cavalca questa teoria: nell’Inferno la natura nella Divina Commedia è distorta, densa di tempeste e paludi, perversa come i dannati che l’abitano; diventa meno fosca nel Purgatorio e arcadica e gioiosa nel Paradiso, insomma: a ciascuno la natura che si merita. A riprova della tenacia del mito, tremila anni dopo la stesura della Bibbia l’idea della natura vendicatrice permane intatta nella cultura occidentale contemporanea (che a torto consideriamo illuminista e intrisa di razionalità) attribuendo alla fantasia del “riscaldamento globale di origine antropica” la causa di eventi catastrofici*.

 

Ma l’uomo, per quanto possa essere una creatura ampiamente imperfetta, conserva un po’ della capacità divina di trarre il bene dal male. In questo caso il bene è la quantità di opere d’arte dedicate alle catastrofi naturali, che dall’antichità appassionano letterati e pittori, le cui testimonianze richiamano le parole di Benedetto Croce: “tutta la storia è storia contemporanea” e, da un altro punto di vista, quelle di Sigmund Freud: “la caducità del bello […] ne aumenta il valore”.**

 

Le catastrofi naturali che più attraggono l’attenzione dei pittori sono i terremoti e le eruzioni, non a caso gli eventi più scenografici, tant’è che celebri pittori accorrono deliberatamente sul luogo (è il caso di Pierre-Jacques Volaire, francese, che dal 1770 si installò a Napoli per ritrarre tutte le successive eruzioni del Vesuvio). La quantità di materiale prodotto dagli artisti è ovviamente proporzionale all’intensità del fenomeno: non a caso il terremoto di Lisbona (1° novembre 1755, magnitudo 7.7, 60/90.000 vittime) e quello della Calabria meridionale (5 febbraio - 28 marzo 1783 magnitudo 5.9, circa 30/50.000 morti) hanno lasciato dietro di loro una densa scia di rappresentazioni. Viceversa il terremoto della Val di Noto (9-11 gennaio 1693), di magnitudine 7,3, il più forte mai registrato sul territorio italiano, benché abbia causato 60/70.000 vittime ebbe scarso seguito documentario probabilmente a causa dell’isolamento politico e sociale della Sicilia orientale, all’epoca dominata dagli spagnoli. Anche le inondazioni piacciono agli artisti, ma la natura stessa del fenomeno, caratterizzato da una visuale piatta, tende a generare opere meno drammatiche, spesso non prive di una vena lirica. Quanto ai maremoti la storia della pittura è assolutamente satura di imbarcazioni (dalle zattere ai galeoni) in balia di onde la cui natura (semplice tempesta? maremoto? tsunami?) non sempre è palese; in più l’iconografia del maremoto è assorbita da quella del terremoto, visto che le due catastrofi vanno volentieri a braccetto.

 

Discorso assai diverso per pestilenze e carestie***: non sono eventi puntuali che si concentrano (e concentrano le loro vittime) in un intervallo brevissimo, ma dilatati nel tempo. Ce ne si accorge solo quando si sono accumulati accadimenti singoli (la mensa sempre più scarsa, i vicini di casa che cominciano a morire in misura preoccupante) e gli artisti sono coinvolti nelle stesse dinamiche della catastrofe che il loro talento potrebbe o vorrebbe rappresentare, il che li rende guardinghi. Nascono così gli innumerevoli Trionfi della Morte e le numerose Danze macabre, ovvero rappresentazioni sintetiche a posteriori della presenza della morte. Di rimmagini di questo tipo se ne contano circa 300, soprattutto nel Nord Europa e nel Nord Italia. 

 

Per capire realmente il significato di quella che attualmente ci sembra solo una espressione artistica tardo medioevale e particolarmente macabra, dobbiamo ricordare la recente esperienza del Covid che ci ha coinvolto tutti: se in un’epoca razionale come quella contemporanea si è riusciti terrorizzare la maggioranza del popolazione al punto da farle accettare le reclusione volontaria e la fiducia in un rimedio taumaturgico che si è rapidamente rivelato inefficace, come dovevano sentirsi i nostri progenitori che vedevano i loro vicini, i loro famigliari andarsene uno dopo l’altro? non è un terremoto o un’inondazione o un colossale incendio, che i nostri antenati conoscono e capiscono, la pestilenza è qualcosa di invisibile che è dovunque e fa sì che gente che ieri era in buona salute oggi si ammali e muoia. E’ un terrore giustificato, rinforzato dalle prediche domenicali di uno stuolo di prelati (ben più convincenti degli attuali virologi della tv) che spiegano che all’origine della pestilenza, della carestia, della pioggia che fa marcire il grano, della siccità c’è il mio peccato, la mia colpa personale, che quello che succede è solo l’anticipazione del fuoco eterno. Così l’arte esprime questa angoscia diffusa manifestando la consapevolezza collettiva che la morte è scesa tra noi. E’ una coscienza, quella della morte imminente, che si estende come un manto ad avvolgere tutta la popolazione, che entra nelle case (dei ricchi come dei poveri, una volta tanto), che coinvolge perfino i giochi dei bambini: la più famosa delle cantilene, il Giro giro tondo / casca il mondo, è proprio un ricordo della peste, non di quella del 1347 ma di quella che colpì Londra nel 1655; il testo originale suona:

Ring around the rosie

A pocket full of posies

Ashes, ashes

We all fall down,

ovvero:

Una ghirlanda di rose

Un sacchetto di fiori profumati

Ceneri, ceneri,

Cadiamo tutti,

dove: l'anello di rose sono i bubboni, il sacchetto profumato veniva usato per difendersi dall'odore, ashes (ceneri) in altre versioni diventa A-tishoo, suono onomatopeico per i colpi di tosse (occorre ricordare che la peste si presenta principalmente in due forme: lo sviluppo di bubboni, non contagiosa, e la localizzazione nell’apparato respiratorio, contagiosissima).

 

Ma in fondo tutte queste catastrofi naturali hanno prodotto una quantità di vittime insignificante rispetto a quella prodotta dall’uomo e dalle sue inutili guerre, quelle del passato e quella verso la quale i nostri governanti ci stanno trascinando, che potrebbe essere la peggiore.

 

 

nell'immagine: Il trionfo della Morte, 1440-1445, affresco di Palazzo Abatellis, Palermo

  

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* è comunque vero che eventi drammatici come le inondazioni che da anni affliggono l’Italia sono causa dell’uomo, non per i suoi peccati, ma per la mancanza di controllo e manutenzione dei corsi d’acqua e per la disinvoltura con cui si costruisce sugli argini (anche questi sono peccati, solo non previsti nelle Tavole della Legge)

** Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, 1917. Sigmund Freud, Caducità, 1915. Croce ebbe un’esperienza diretta delle catastrofi naturali: il 28 luglio del 1883, quando aveva 17 anni, i suoi genitori perirono nel terremoto di Casamicciola, sull’isola d’Ischia, dove la famiglia si trovava in vacanza. Anche Benedetto fu travolto dal terremoto e rimase "sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo" (C. Del Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Napoli 1883)

*** la cosiddetta Peste nera (o Morte nera) arrivò nel 1347 simultaneamente a Messina e Marsiglia portata da mercanti genovesi provenienti da Costantinopoli (dove era arrivata insieme alle orde mongole). In cinque anni si diffuse in tutta Europa, fino alla Groenlandia meridionale, a quel tempo era colonizzata dai Vichinghi e più calda (!). Si stima che i morti in Europa siano stati tra 25 e 30 milioni su una popolazione totale inferiore agli 80 milioni. Non fu né la prima né l’ultima pestilenza che afflisse l’Europa. E’ interessante osservare che i rimedi proposti dalle autorità sanitarie dell’epoca sono praticamente gli stessi di quelli proposti per il Covid a distanza di quasi un millennio: ovvero l’isolamento dei malati e il divieto di circolazione (con l’aggiunta, nel Medioevo, di spargimento di calce viva sui cadaveri). Come dire, ora come allora, nessuna terapia rivolta alla guarigione

 

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