Il calendario di febbraio 2025
Animali divini
Abbiamo spesso dedicato qualche riga al contributo che gli animali hanno dato allo sviluppo della più nobile di tutte le attività umane, l’arte. E’ giunto il momento di ricordare che esiste un livello ancora superiore a quello della produzione artistica, e cioè il pensiero puro, che si manifesta in molte forme e conduce a domande ancora in gran parte senza risposta intorno al significato dell’esistenza. Ebbene, la Natura e gli Animali (in questo caso l’iniziale maiuscola è d’obbligo) hanno aiutato e aiutano la specie umana proprio in questa direzione.
La nascita del monoteismo, cioè della religione che riconosce un’unica figura divina, è un fatto piuttosto recente nella vicenda umana. Che si tratti di una rivelazione o di un’invenzione (a seconda delle credenze di ciascuno), ben prima che tutti gli attributi divini venissero concentrati in un’unica figura, essi erano dispersi in un pantheon spesso costituito da animali o da uomini rappresentati totalmente o in parte come animali.
La più antica forma di spiritualità è certamente l’animismo: il raccoglitore del paleolitico che ha casualmente trovato una pietra che l’ha affascinato, il cacciatore che è riuscito entrare in possesso di una selce tagliente, percepiscono un legame speciale con l’oggetto, cui attribuiscono una proprietà che essi - in quanto consci del fatto di essere vivi - sanno di possedere: l’anima (oggi diremmo la coscienza).
Anche in un luogo dove è stata fatta una buona caccia, lungo un fiume sulle cui sponde la piccola tribù si è riposata così come presso un cratere o una rupe di forma strana, il nostro antenato percepisce confusamente una vitalità che fa pensare a una relazione più intima, meno banale, col sé. La caccia, poi, impone che il cacciatore conosca la sua preda, possa anticiparne il comportamento, si identifichi con essa. In un mondo dove tutto è mutevole e imprevedibile finalmente qualcosa si fissa stabilmente, qualcosa che vale la pena di tenere con sé e registrare per gli altri del clan: scene di vita, episodi di caccia, sagome di animali. Le credenze spirituali e l’arte nascono insieme.
Il nostro antenato percepisce un legame spirituale e privilegiato con cose, animali e luoghi particolari, ma ancora non ne fa oggetto di adorazione. Semplicemente si affeziona alla cosa, dall’animale guida trae esempi di virtù. Pensa che ciò che gli accadrà domani possa avere una relazione con quell'oggetto, quell’animale o quel luogo. Non siamo ancora alla religione: il sentimento, il legame magico con la selce che ha fatto un buon colpo, l’identificazione con l’animale guida, è individuale e personale, magari segreto. Sarà necessario molto tempo prima che questo sentimento diventi collettivo, condiviso da altri membri della tribù: un altro attore deve comparire sulla scena, il sacerdote.
Passano secoli e millenni, il clima sempre più freddo ha ridotto i grandi mammiferi che erano soggetti privilegiati della caccia, la piccola tribù non può più vagare nelle intemperie, ha dovuto fermarsi, ha scoperto che è più efficiente piantare e coltivare, che se lascia che i piccoli animali si riproducano è possibile avere del cibo senza le fatiche e i rischi della caccia. Anzi: ora c’è un surplus di cibo che consente di alimentare anche i meno abili, che altrimenti sarebbero abbandonati al loro destino. Nasce, in seno alla piccola società, la classe degli intellettuali: sono membri del clan che non producono risorse materiali ma che soddisfano bisogni più profondi affrancati dall’abbondanza, sono artisti, insegnanti, uomini di medicina. Tra essi qualcuno - lo sciamano - si assume il compito di patrimonializzare le credenze individuali, mostrandosi come mediatore tra le sorti della tribù e le forze che emanano dai talismani, dai luoghi sacri, dagli animali guida. Da mago diventa sacerdote, organizza le credenze, stabilisce i riti. La superstizione diventa religione*.
Nel processo di trasformazione delle credenze individuali in patrimonio religioso collettivo, i totem e gli animali guida perdono la loro relazione con il singolo soggetto posto sotto la loro protezione, estendendola a tutta la comunità e quindi acquistando una facies unica. Gli animali diventano dèi concreti, con tanto di sacerdoti, riti e talvolta santuari specifici. E ciò succede, benché in momenti storici diversi, in tutte le società antiche.
Le culture dell’estremo oriente si impadroniscono della volpe e del cane procione (Giappone), del corvo e del leone (Corea), del lupo e dell’aquila (Mongolia), dello yak (Tibet), della tigre e della fenice (Cina). Più o meno tutti del drago e della tartaruga. Ma si tratta ancora di spiriti, di simboli. Occorre spostarsi un po’ più a ovest per trovare animali realmente deificati e ibridi con l’essere umano: Ganesha, dio indiano della saggezza e della prosperità, ha la testa di elefante; Hanuman, dio indiano del coraggio, è una sintesi di uomo e scimmia; Narasimba, metà uomo e metà leone, Varaha, cinghiale dal corpo umano, e ancora l’aquila Garuda, il pesce Matsya, la tartaruga Kurma sono tutte incarnazioni di Vishnu. Se poi scavalcassimo l’oceano Pacifico scopriremmo, nelle Americhe, un’altra abbondanza di dei ibridi: il cane Xolotl degli Aztechi, il pipistrello Camazotz dei Maya, il serpente-uccello Virachoca degli Inca, il coyote, l’aquila, il lupo e l’orso delle popolazioni nordamericane. E ancora: il serpente piumato Quetzalcóatl, il giaguaro Tezcatlipoca, il lama multicolore Urcuchillay e una quantità di altri.
Tuttavia è nell’area mediterranea che le divinità zoomorfe acquistano un profilo più netto e la loro associazione all’uomo si istituzionalizza stabilmente, soprattutto presso la civiltà egiziana. Esistono testimonianze di divinità ibride - figure umane con maschere di animali - risalenti al periodo predinastico, quindi precedenti il 3000 a.C.; già allora l’Egitto era un paese ricco, strutturato socialmente e le inondazioni del Nilo consentivano una qualità di vita molto elevata, il che comporta la presenza di una casta sacerdotale sviluppata, che sarebbe diventata sempre più numerosa e potente col succedersi delle dinastie faraoniche**. Benché l’Egitto fosse molto esteso, gli insediamenti umani erano attestati in gran parte lungo le sponde del Nilo, che favoriva viaggi e contatti. Vi erano dunque tutti gli elementi propizi alla nascita di una forma di religione unica e formalizzata, in grado di connettere simbolicamente la natura e l’essere umano e quindi di generare dèi antropomorfi, il cui culto prese l’avvio l’avvio verso il 2700 a.C. con Horus (uomo dalla testa di falco, dio del cielo), Anubi (uomo con la testa di sciacallo, dio dell’aldilà) e Hathor (in origine una giovenca, in seguito rappresentata come giovane donna sormontata da corna bovine, dea dell’amore, della musica, della fertilità, patrona delle partorienti, ma anche signora dei morti, la dea certamente più amata dal popolo). Durante l’Antico Regno, cioè verso il 2500 a.C., la stessa epoca di costruzione della Sfinge (che non è un dio, ma è pur sempre un ibrido umano-animale) il pantheon egiziano si arricchisce e assume la sua configurazione definitiva.
Del tutto diversi ci appaiono gli dèi della mitologia greca, che hanno sempre la forma di uomini e donne***. Rispetto alla narrazione degli dèi egiziani quella greca ci appare molto più vicina a noi, databile a un periodo storico in cui il processo di sviluppo del sistema religioso aveva raggiunto la maturità e si era completamente liberato degli orpelli della superstizione. Gioca anche il fatto che la cultura greca si fondava sulla razionalità e sull’etica e la letteratura sull’eroismo, tutte qualità prettamente umane. Il pantheon greco, in definitiva, è costituito da persone, dèi e semidei, che si comportano come i membri di una (litigiosa) famiglia umana, a parte il fatto di essere immortali. Ciò non significa che anche all’origine della mitologia greca non vi fossero figure zoomorfe (come il Minotauro) che divennero sempre più umane a mano a mano che le civiltà di Creta e Micene cedevano il passo all’invasione dorica e alla formazione delle città-stato. D’altra parte anche nella mitologia ormai stabilizzata della Grecia classica, a partire dal 500 a.C., compaiono animali col ruolo di fiancheggiatori degli dèi: l’aquila è il messaggero di Zeus (il quale Zeus, peraltro, si trasforma in cigno ogni volta che serve), il serpente è il simbolo di Asclepio, dio della medicina, il gufo è sacro ad Atena, il cervo ad Artemide, il toro e il leone sono sacri un po’ a tutti i maschi della famiglia, e gli esempi si potrebbero moltiplicare, senza dimenticare un buon numero di animali fantastici che entrano nel vastissimo racconto mitologico (il cavallo alato Pegaso, il cane a tre teste Cerbero, la Chimera, l’Idra di Lerna, etc.).
Non c’è poi da pensare che solo animali di grande mole abbiano avuto un ruolo nello sviluppo della religione, che non trascurava gli insetti. Le api e le cicale erano care ad Artemide e Apollo, lo scarabeo (anche nella forma di uomo con la testa di scarabeo) è associato alla divinità solare dell’Egitto, di nuovo le api sono compaiono nell’Induismo e nelle religioni dell’America precolombiana. E poi troviamo libellule, farfalle, mantidi e via dicendo.
Tutto cià dovrebbe essere sufficiente a convincerci che gli animali hanno aperto all’uomo la via della spiritualità. Pensiamoci ogni volta che ci nutriamo dei loro corpi: gli aborigeni canadesi chiedevano perdono all’orso dopo averlo ucciso, gli antichi cambogiani celebravano con sette giorni di lutto l’uccisione di un elefante, gli indigeni del Madagascar cacciavano la balena, ma la invitavano a scendere nell’abisso per non essere straziata dai lamenti dei suoi piccoli morenti.
nell'immagine: Dio pipistrello, urna funeraria zapoteca in terracotta, 350-500 d.C., Oaxaca
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* la nostra narrazione ripercorre un po’ quella classica di Sir James Frazer contenuta nel monumentale Il ramo d’oro (1890-1915). Si tratta di un approccio tendenzialmente darwinista che non tutti gli antropologi condividono, vuoi perché considerato troppo rigido (da Malinowski e Lévi-Strauss) vuoi perché nega la sacralità e l’individualità dell’esperienza religiosa (Mircea Eliade, Rudolf Otto, William James). Perfino Ludwig Wittgenstein, che non può essere certo accusato di debolezze metafisiche, scrive che Frazer "non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza". Tuttavia il passaggio dalla superstizione alla religione induce un’istanza liberatoria: come sottolinea Freud in uno dei saggi di Totem e tabù l’uomo animista ripone una fiducia spropositata nell’amuleto, strumento attraverso il quale pensa di poter controllare la natura, da cui l’ambivalenza del totem individuale (dato che non tutte le sue aspettative si verificano). Delegando il potere a un dio condiviso (o a un pantheon di dèi) l’uomo abdica a questo potere individuale, e dunque all’ambivalenza, al disordine mentale conseguente all’insuccesso, e lo sostituisce col rito, uno strumento per ingraziarsi l’essere superiore
** il potere della casta sacerdotale egiziana è provato storicamente dalla vicenda di Akenathon (si veda, nel calendario: Un episodio di cancel culture nell’antico Egitto)
*** o almeno così ci sono stati tramandati perché le fonti sono solo recenti: i testi di riferimento diretti sono esclusivamente i poemi omerici risalenti al VII secolo a.C. e le opere di Esiodo (contemporaneo di Omero), che contengono un tentativo di organizzare i miti
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