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domenica 30 giugno 2024

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Labirinti

Una delle più articolate black comedies che ci ha lasciato la mitologia greca è quella del Minotauro, del labirinto e di Teseo e Arianna. La storia comincia con una certa Pasife, moglie del potente re di Creta, Minosse, che concupisce un toro (proprio un toro, un bel toro robusto, niente di metaforico); dalla loro unione nasce un mostro, Asterio, subito soprannominato Minotauro, col corpo di uomo e la testa e gli zoccoli di toro. Minosse, che non è esattamente contento del comportamento della moglie, nasconde il figlio della colpa dentro una struttura così complicata che il Minotauro non ne potrà sfuggire: così incarica l’architetto Dedalo di costruire il labirinto. Il Minotauro non è un tipo di buon carattere (già non era bello, in più l’avevano messo anche in galera) e si ciba di uomini, che Minosse preleva nella sua colonia di Atene in quantità sufficiente (sette maschietti e sette femminucce all’anno). Ora succede che Minosse e Pasife hanno anche una figlia, Arianna, questa volta concepita regolarmente e piuttosto carina. Arianna si innamora di un macho ateniese, un certo Teseo, un po’ scocciato di dare in pasto i suoi giovani concittadini al mostro, e lo aiuta a penetrare nel labirinto, a uccidere il Minotauro e a uscirne illeso. Teseo e Arianna se la spassano insieme per un po’ finché lui non la scarica per mettersi con una certa Egle.

Tutta questo ce lo racconta Callimaco di Cirene, un autore best seller del 300 a.C.; è una bella vicenda, un po’ storia d’amore un po’ thriller, che rimase a lungo nella memoria del pubblico, con tanti personaggi e diramazioni (ad esempio Dedalo, che fu imprigionato nel labirinto ma ne fuggì costruendo un paio di ali per sé e per il figlio Icaro, che fece invero una brutta fine) che non possono non ricordare gli infiniti episodi dei serial TV (di volta in volta situation, soap, drama, …). Dante mette il Minotauro nell’Inferno ma è meno severo con Pasife (colei che s’imbestiò) che finisce nel Purgatorio.

Abbandonando la facile (ma doverosa) parodia, ciò che ci interessa davvero di questa vicenda è il Labirinto, probabilmente un palazzo (forse la reggia di Cnosso, forse un sistema di grotte) talmente grande e articolato che al suo interno ci si poteva perdere. Erodoto, che Cicerone chiama “padre della storia”, è stato il primo storico a citare il labirinto, verso il 450 a.C., con riferimento a quello di Meride, in Egitto. Plinio il Vecchio, più sistematico, nel libro XXXVI della sua Naturalis Historia, pubblicata nell’anno 77 d.C. (è una raccolta di tutto lo scibile precedente) ci rende conto di quattro labirinti dell’antichità, tra cui quello di Meride, del quale dice che fu costruito 3600 anni prima, e quello di Cnosso, del quale dice che Dedalo imitò solo la centesima parte del labirinto di Meride, costituito da 3000 camere. Da allora il labirinto ha conosciuto periodi di maggiore o minore successo. Per primi se ne impossessarono i romani, che disseminarono l’impero di una quantità di mosaici, poi fu la volta del Cristianesimo, che riempì di “labirinti dell’anima” i pavimenti delle chiese; nel Rinascimento e nei secoli successivi, anche in seguito all’importazione dall’America di nuove specie arboree, si attestano i labirinti vegetali, “da giardino” (o Irrgartner), fino ad arrivare ai nostri giorni, quando ancora si costruiscono labirinti di qualità non inferiore a quelli dei tempi passati.

Il fatto è che il labirinto, oltre a essere una costruzione o un disegno, è un archetipo, ovvero un simbolo universale del pensiero, una forma espressiva comune, come tale presente in molte culture diverse e lontane (dalla Mesopotamia alla Scandinavia, dall’Australia all’America precolombiana)*. Anche perché i labirinti (almeno quelli disegnati) sono simili a segni grafici, come le sequenze di cerchi o quadrati concentrici, le spirali, le spirali doppie, i triskell, i meandri, i mandala, i nodi, non a caso tutti simboli universali. Il labirinto lascia comunque percepire una sua specificità che lo distingue dagli altri segni grafici.

Già nell’antichità molti filosofi cominciarono a dare al termine labirinto** un significato metaforico: un percorso difficile, una situazione da cui non si sa come uscire. Ancora oggi la parola evoca difficoltà, disorientamento, caos. La buona notizia è che da ogni labirinto è sempre possibile uscire***: il labirinto confonde, mette a prova la tenacia di chi lo percorre, ma non è mai mortale. Quindi la sequenza: ingresso -> raggiungimento del centro -> uscita rappresenta un rito di passaggio, un difficile cammino verso un obiettivo e la soddisfazione di averlo raggiunto.

Nel mito di Teseo questa valenza positiva si realizza attraverso l’uccisione del mostro ovvero la cancellazione simbolica delle istanze animalesche a favore di quelle solari dell’eroe (e per estensione la caduta della cultura cretese e il successo di quella attica). Dei numerosi trojaburg (labirinti disegnati per terra con sassi, spesso di fronte al mare) del Nord Europa si è fatta l’ipotesi che fossero luoghi magici dove invocare gli dei per una buona pesca o spirali da percorrere danzando****, eventualmente per raggiungere la coppia di futuri sposi che occupava il centro. Nel Cristianesimo il labirinto viene interpretato come percorso di espiazione e presa di coscienza, come pellegrinaggio simbolico verso la città di Dio che ne era posta al centro. In realtà si trattava di un percorso facile e di successo garantito, un po’ come una confessione dove il penitente se la cava con qualche orazione: ogni labirinto cristiano è disegnato (o comunque rappresentato orizzontalmente) sul pavimento della chiesa, quindi chi lo percorre sa in ogni momento dove si trova; inoltre è unicursale ovvero esiste uno ed un solo percorso obbligato che conduce dall’ingresso al centro, sicché per uscirne basta percorrere all’indietro il cammino che è stato seguito per arrivare al centro (meno simpatico il fatto che talvolta doveva essere percorso in ginocchia: in questo caso, forse, rappresentava il cammino che Gesù aveva dovuto percorrere portando la croce).

A partire dal XVI secolo il valore simbolico e magico del labirinto cede il passo a quello che abbiamo chiamato labirinto da giardino ovvero un labirinto i cui percorsi sono delimitati da siepi, di altezza spesso maggiore dell’uomo (e quindi, percorrendolo, non si sa a che punto ci si trova) e multicursali (ai quali gli inglesi riservano la parola maze, per distinguerli dai labirinti cretesi classici). Chi percorre un simile labirinto si trova davanti a diramazioni (bivi, trivi, …) e deve prendere una decisione su quale scegliere: andare a destra o a sinistra? qual è la strada che conduce al centro? Ma anche qui, se è stata fatta la scelta sbagliata e si è imboccato un vicolo cieco prima o poi ci si ritroverà alla diramazione e basterà effettuare  una scelta diversa; prima o poi si esce a costo di aver percorso tutto il labirinto. E’ proprio in questa capacità dell’adattarsi a diverse culture e realtà storiche che consiste il valore dell’archetipo, un segno il cui significato può mutare, ma che resta tenacemente abbarbicato alla sua forma primigenia.

Nessuno stupore, quindi, se il labirinto, sia come edificio concreto che figura metaforica, ha impregnato di sé molte opere d’arte, letterarie e figurative. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata fino alla Pentesilea di Italo Calvino, per non dire di film come Metropolis e Shining, di pittori come Pollock e Mondrian, dell’incisore Escher, di intere correnti come la Neue Ornamentik, lo Schematismo, il Labirintismo. Ma parlare di labirinti significa soprattutto parlare dello scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) che ha posto il labirinto, palese o latente, al centro della sua opera: La Biblioteca di Babele, Il Giardino dei sentieri che si biforcano, L’Immortale, La casa di Asterione, La lotteria a Babilonia e molti altri suoi racconti sono narrazioni del ruolo che il labirinto ha assunto nella vita di ciascuno di noi.

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* sulla natura archetipica del labirinto, e quindi l’origine spontanea del simbolo in culture senza contatti, non tutti i ricercatori sono d’accordo. Gli storici dell’evidenza sostengono che la sua diffusione è legata al progressivo trasferimento del simbolo (così come del tracciato o dell’edificio) a partire dalla cultura minoica
** sull’origine della parola si sono fatte diverse ipotesi. Nella mitologia greca il termine labýrinthos indica la reggia di Cnosso e la si vuole collegare con labrys, l’ascia bipenne simbolo della regalità cretese. Più probabilmente il termine ha qualche riferimento con la pietra (labur nella lingua egea)
*** tutti i metodi per raggiungere il centro e uscire da un labirinto sono di natura empirica
**** esiste un’ipotesi (dello studioso Hermann Kern) secondo la quale all’origine del labirinto vi è sempre e comunque una coreografia

nell’immagine: Piet Mondrian, Composizione nro 10, 1915

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